Da Mandela a Mbappè: lo spo(r)t dell’integrazione

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I Francesi che oggi festeggiano la vittoria del Mondiale, grazie ad emigrati di seconda e terza discendenza africana, sono gli stessi che a dicembre hanno brandito manganelli a Ventimiglia. Se non si fossero lasciati partire, e poi fatti arrivare, quelle donne e quegli uomini dal Continente Nero, adesso non avremmo goduto del loro talento, della loro creatività, dell’emotività legata all’accoglienza. Allora, essere padroni del Mondo, sulla vetta più alta del Mondo, significa pensare al di là dei limiti strutturali della propria fisicità. E’ il pensiero, forse che corrobora azione e integrazione. In queste ore Nelson Mandela avrebbe compiuto cento anni, di cui ventisei trascorsi in una cella 2×2, due passi per due passi. Era il detenuto 466 del ’64, era l’essere umano più libero di tutti, fosse egli sulla cima del Mondo o “comodamente” seduto nella cella di una delle carceri più dure. Trascorreva le giornate spaccando sassi per generare altri sassi, un lavoro alienante e ripetitivo, il mantra di chi ieri (come oggi Mbappè, Kantè o Pogba) non aveva mai smesso di sentirsi invincibile.


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