Chi sbaglia paga: un’affermazione molto comune, pronunciata soprattutto a ridosso di casi giudiziari di notevole rilevanza sociale. L’affermazione di cui sopra, utilizzata molto spesso impropriamente e con approssimazione, contribuisce a iniettare linfa vitale nel circo mediatico che nasce di scandali che investono il mondo della giustizia, della politica e delle istituzioni in generale. Il circo mediatico in una società sempre più virtuale e meno reale, si trasforma in un vero e proprio tritacarne nel quale sprofonda il soggetto potenzialmente colpevole (ricordiamo il principio costituzionale secondo il quale, l’imputato non è colpevole sino alla condanna definitiva) di questo o quel reato che suscita allarme sociale e, consentitemi, prediche da pulpiti inappropriati nel pronunciarle. Un tritacarne, senza agenti anestetizzanti, popolato da soggetti che con superficialità ed armati, in molti casi di una semplice penna o tastiera, sferrano colpi impercettibili, attraverso illazioni o insinuazioni non fondate su alcun elemento probatorio, per consumare lentamente la reputazione di un soggetto che ancora prima di difendersi in un Tribunale è chiamato a tutelarsi, ed a tutelare i propri cari, dal male dei mali: il chiacchiericcio. La società odierna così confusionaria, dove sempre più muri vengono eretti, pullula di tifosi non pensanti che, a seconda dei ruoli e della fame ossessiva di fama, sono disposti ad attaccare, infangare, sostituendosi a chi di dovere nell’emettere sentenze, inficiate di becera superficialità, che diventano marchi permanenti sulla carne viva di un semplice essere umano: indagato o imputato ma pur sempre umano. Umani così proiettati nella ricerca dell’utopica (e si badi bene solo altrui!!!) perfezione e, al contempo, così lontani dalla loro essenza imperfetta: umani così reattivi nel colonizzare piedistalli di cartone dai quali lanciare accuse o peggio lezioni di moralità. Capita sovente quindi di ascoltare le prediche di novelli opinionisti, travestiti a seconda della contingenza del momento da giornalisti – costituzionalisti – moralizzatori, puntare il dito contro il magistrato accusato di corruzione, al quale magari in tempi non sospetti ci si affannava e sgomitava nel lucidare le scarpe: saranno mica etici a intermittenza? Ecco che sorge spontanea una domanda o forse più di una: oltre i giudizi approssimativi e distruttivi, vi è volontà di rispettare la sofferenza altrui? Quale divinità mitologica arroga il diritto a questo o quell’essere umano di contribuire a picconare l’esistenza di un soggetto iscritto nel registro degli indagati? Già perché un indagato è pur sempre umano, magari avrà dei figli e una famiglia: perché deturpare l’esistenza di innocenti attraverso condanne sommarie? Perché fare indigestione del verbo “giudicare” dimenticando un verbo che, invece in molti casi andrebbe applicato, come “aspettare”?
a cura di Giuseppe Leonetti